venerdì 13 luglio 2007

Papillon, fuga dallo studio, parte seconda, il goal

L’innamoramento mi portò a scrivere poesie, copiate spudoratamente da veri artisti. Mi ritrovai a sfogliare i testi scolastici alla ricerca di bei versi da cantare alla mia amata. “Povero sciocco”, me lo dico con molta tenerezza, ma allora lo ero, un cucciolo d’uomo ingenuo. La mia relazione finì, ma, continuai ad aprire quei libri che prima mi erano tanto antipatici, e senza accorgermene incominciai a prendere confidenza con la lettura.
Un giorno entrai in edicola, mi conquisto la copertina di un libro, era una raccolta di racconti di Hermann Hesse, lo acquistai e lessi in pochissimo tempo, gia pronto a prenderne un altro, sempre dello stesso autore, ma poi, invece, venne Steinbeck, Faulkner, Conrad, De Foe, Greene, Mann, poi a seguire, tanti, ma, tanti, altri autori, libri, quotidiani, riviste, ormai non mi fermavo più, era una droga, ma senza controindicazioni, leggevo e non avevo voglia di smettere.
Cresceva dentro di me, non la passione per i libri, ma il desiderio d’imparare, brama, sete che chiedeva ogni volta, “Ancora!”.
I miei amici mi fecero notare che potevo tentare di riprendere gli studi, avevo una buona cultura, c’erano tanti ragazzi diplomati, senza un briciolo di conoscenze, ed allora perché non provarci anch’io, si, ma un conto era leggere un libro che mi piaceva, un altro farlo con uno imposto da altri, ad ogni modo, decisi di provarci.
Preparai il biennio da autodidatta, agli esami andai talmente bene che la professoressa di lettere mi prese in disparte per convincermi ad iscrivermi in diurno per frequentare le sue lezioni. Era un bel complimento, ma avevo paura di non riuscire ad inserirmi, per non parlare delle tante lacune ereditate dagli anni disastrosi delle elementari e medie, ed alla fine, m’iscrissi.
A settembre, alla veneranda età di 25 anni, entrai nella classe terza di un istituto industriale ad indirizzo informatica, io, abituato ad essere autonomo, indipendente, circondato da persone che stimavo, mi ritrovai in una classe piena di ragazzi 15enni, schiamazzanti, dalle voci assurde, nuovamente guardai le finestre, questa volta ero al pianterreno, ma c’erano le grate, volevo scappare dalla porta, prima dell’arrivo del professore, ma rimasi.
Vacillai tantissime volte, quante volte ho pensato di mollare, ma continuavo lo stesso, e più trovavo difficoltà ancor meglio m’impegnavo, certo ero facilitato dalle letture che davano ai miei passi una marcia in più, ma senza tutta quella volontà di farcela non ci sarei mai riuscito.
Gli anni passarono, terza, quarta, fino all’ultimo anno. Per l'esame di maturità, come materie, scelsi Italiano, e Matematica, questa ultima per dare una mano ai miei compagni, non certo perché ero tanto bravo.
Gli scritti andarono benino, agli orali risultai l’ultimo a dover essere interrogato, e potei seguire tutte le interrogazioni degli altri miei compagni. Andarono malissimo, le cose che sentivo erano assurde, davanti ad una commissione esterna sempre più incredula e scocciata, tutti i trucchi per superare indenni gli anni, ed arrivare all’esame finale, crollarono miseramente, uno s’inventò la teoria della cozza, rigorosamente in dialetto, al posto del concetto dell’ostrica, per spiegare i Malavoglia di Verga, e quello non era il peggio che si poté sentire.
Ero solo, ad aspettare, perchè decisi di non seguire l’interrogazione di quello che mi precedeva e quando questo ultimo uscì, gli chiesi come mai stavano ridendo tanto lì dentro, e lui mi rispose placidamente, “Per le cazzate che stavo dicendo”, ed io pensai, “andiamo bene!”, ed ora era il mio turno.
Mi accorsi subito che qualcosa non andava, gli esterni mi guardavano come l’ultima fatica, da sbrigare velocemente, per dimenticare in fretta, una classe d’asini, la mia professoressa commissario interno, sembrava così piccola, stretta com’era nelle sue spalle, doveva esserci stata qualche discussione.
Per primo toccava all’italiano, mi fecero un cenno stanco e cominciai a parlare di un mio argomento a scelta.
Per anni mi ero rimproverato d’essere troppo dispersivo nelle letture, che preferivo farmi nascere nuove idee, invece di memorizzare quel che leggevo, non sapevo legarmi ad un solo argomento, invece, quella scimmia, che mi portavo, e porto ancora oggi, dentro, e che salta da pensiero in pensiero, come fosse su una liana, questa volta mi servì.
Iniziai a parlare, esporre. Si fecero poche domande, sembrava più un dialogo tra due appassionati di letteratura, gli altri insegnanti cominciarono ad interessarsi e si strinsero intorno a noi, aggiungendo i loro pareri, mentre al commissario esterno d’italiano, brillavano gli occhi, quasi le spiaceva smettere. Mi fecero tutti i complimenti meno il professore di matematica, che doveva interrogarmi dopo, lui mi disse, brutalmente, “Un tecnico deve sapere di tecnica”, tentai di dire qualcosa, ma non mi venne in mente nient'altro che, “Ho studiato”. Mi accorsi che in dieci minuti mi giocavo tre anni della mia vita, sacrifici e rospi ingoiati e mandati giù.
Ero in difficoltà, per la tensione, ma lui domandava, senza aspettare, chiedeva, incalzava sui miei tentennamenti. Era così diverso, il suo modo di interrogare, rispetto alla mia insegnante. Sentivo la stanchezza della notte in bianco, la paura di sbagliare, e perdere tutto. Mi facevo coraggio ripetendomi, “Hai studiato, hai studiato”. Mi fece nero, ma riuscì a rispondere alle sue domande anche se a fatica. Salutai e andai via.
Arrivò il giorno di andare a controllare i risultati, avevo paura, mi sembrava che potessi non avercela fatta, quella dannata ultima interrogazione, se solo fossi riuscito a rimanere lucido in quel momento.

Ecco i risultati, il mio nome. Scorro il dito, ed ecco la votazione. E' fatta, 48/60. Ho ottenuto il diploma, e col voto più alto della classe, senza essere un campione. Sono tornato a casa, ed ho dato la notizia a mia madre, poi a mio padre, ero contento, poi mi avvio a piedi verso casa di mio nonno, ricordando tutti i momenti, le tappe, fondamentali di quest’avventura, le sofferenze, le lotte contro la voglia di rinunciare, le paure. I miei passi, si facevano più lunghi, poi veloci, ed infine tutto si trasformò in una corsa a braccia aperte, e correvo come Tardelli al Bernabeu, dopo il gol nella finale contro la Germania, Spagna 1982. Il mio goal era questo. Correvo e godevo di gioia e di un pianto liberatorio, un’emozione troppo grande, per rimanere zitta, zitta, dentro di me.
Questa è la mia storia scolastica e di come arrivai al diploma, ho anche provato ad iscrivermi all’università ma non potevo più permettermi il lusso di non lavorare, così lasciai stare, ma questa è un'altra storia.