sabato 4 agosto 2007

Ho traslocato

Ho traslocato. D’ora in avanti troverete i miei post all’indirizzo http://jedredd.splinder.com. Addio mio vecchio blog, già mi manchi.

giovedì 2 agosto 2007

@ Soffio di Maggio

Nel suo commento al precedente post, Soffio di Maggio, mi pone questa domanda:

“MI spiace che tu abbia avuto una esperienza simile. Rivedendola con gli occhi di oggi, credi che affronteresti diversamente, con la consapevolezza odierna, una situazione simile, se (speriamo di no!) dovesse ripresentarsi?”

La risposta mi sembrava abbastanza interessante da meritarsi lo spazio di un post.

Cara SdM,
Si, una situazione simile, l’affronterei diversamente, sicuramente eviterei ogni forma di vittimismo a favore di un dialogo più sincero con chi verrebbe a trovarmi, la paura, la solitudine, beh, quelle due signore ci sarebbero ugualmente, ma avrei più mezzi per gestirle, farle defluire.
Queste sono le mie parole, da lontano è facile parlare, invece, una volta in mezzo, sono sicuro che soffrirei tanto, pur con tutto l’impegno, mi sarebbe impossibile il contrario, ormai è chiaro che per certi eventi non si è mai abbastanza preparati.
Spero che il fato sia soddisfatto di quanto ho già dato, sarebbe una bella botta ritrovarsi in quella situazione, in ogni modo, alzerei le spalle, mi farei forza, e cercherei in tutte le maniere di trasformare un evento traumatico in qualcosa di costruttivo, questo parlare mi riporta alla più bella frase, a mio giudizio, di Nietzsche, “ ciò che non ti distrugge, ti rende più forte”.
Certo, non è così facile, farsi forza, ma altrimenti cosa ci rimane, tormentare lo spirito, quando è già il corpo a soffrire? No, no, ho visto grandi mali sconfitti da un sorriso, l’anima è la miglior medicina, e l’abbiamo sempre a disposizione dentro di noi, per chi, naturalmente, sapendo star solo riesce ad entrarci facilmente in contatto, coltivandola, rinverdendola continuamente, riempiendola di nuovi fiori, estirpando le erbacce, ecc, come fosse un giardino segreto, un luogo sicuro dove rifugiarsi, ricaricare le pile e ripartire.

Un abbraccio

sabato 28 luglio 2007

La solitudine

Avevo sedici anni, subito dopo aver ritirato la moto dal meccanico, intenzionato a rimanere sulla sella fino alla nausea, mi dirigevo verso la piazza centrale, vidi un amico davanti a me, che col suo motorino, mi precedeva di poco, decisi di raggiungerlo, e tentai il sorpasso all’automobile che stava davanti a me. L’auto girò verso sinistra, mentre io ero al centro, urtandomi, schiacciò a terra, la moto, con sotto il mio corpo, finendo per rompermi le ossa di una gamba. Mi vidi dall’alto, disteso in terra, come in un fotoromanzo, per immagini, mentre la benzina si riversava addosso, poi cercando di mettermi dritta la gamba, che sembrava quella di un pupazzo. Ero solo, e non c’era nessuno con me, lì dentro, nel mio corpo, nella mia anima, con quel dolore, e la gamba era mia, di nessun altro. Cercai di infondermi coraggio, dicendomi, “Passerà, non aver paura”. Tenni duro, riuscì a rilassarmi, accettare tutto quello che mi accadeva, ma non durò a lungo. I giorni in ospedale, fermo nel letto, s’inseguirono uno dopo l’altro, cominciai a non sopportare l’assenza di qualcuno vicino, sopratutto nelle notti senza sonno, quando il dolore mi obbligava a stringere i denti, guardandomi attorno, in un silenzio, troppo grande, nonostante i lamenti di tutti i compagni di sventura.
Lo confesso: ho spesso recitato un ruolo, in quei giorni, mi lamentavo più del tanto, volevo ottenere tanta attenzione, per illudermi la notte che non ero solo, ma più mi comportavo così, più sentivo quella solitudine che tanto temevo. Mi lamentavo di quanto stavo male, ma il vero dolore era la paura, ed ero incapace di dire, “Pà, Mà, ho paura!”, no, non sono stato capace di comunicarlo, troppo uomo per ammetterlo, ma non ancora abbastanza da resistere a tutto quel tempo passato da solo con me stesso, un me diverso, sofferente, immobile, senza vie di fuga.
Ho sofferto, ma ho imparato qualcosa, la solitudine, quella negativa, nasce dall’incapacità a comunicare le nostre emozioni ad altre persone, quando con una maschera in faccia, mettiamo in gioco carte false, quelle di un altro noi, artificiale, costruito ad arte, magari, per paura di non piacere, quando è molto forte il timore di essere messi in discussione, perché stare con gli altri comporta un certo rischio, quello d’essere mal giudicati, interpretati, rifiutati, per le nostre idee, per l’opinione personale che abbiamo di noi stessi.
La verità è che riuscire a mettersi in relazione con gli altri è tanto importante, quanto saper star soli, anche quando la compagnia che ci sta vicina, ci disturba, indigna, con frasi, comportamenti, offensivi, ma sono proprio loro a darci l’idea precisa della nostra identità. E’ bello saper stare soli, prendere confidenza con noi stessi, essere in grado di ascoltare le nostre emozioni e di cogliere il senso delle esperienze che stiamo vivendo, infatti, anche la solitudine può rivelarsi costruttiva, quando è legata al gusto di riscoprirsi ogni giorno, e ci permette di comunicare con altre persone, perché chi conosce se stesso, non ha paura di nessun giudizio, ma bisogna ammettere che ricercare la solitudine per porsi al centro del mondo e autocompiacersi nel vittimismo, è una cosa stupida.

sabato 21 luglio 2007

Emozionarsi ad ogni età

Stavo ancora pensando a quell’arzillo vecchietto, di cui ho parlato nel precedente post, sinceramente, speravo che il suo Viagra fosse l’amore per lei. Si cresce, e crescendo si pensa, non sempre, ma qualche volta capita, che si diventerà vecchi. Troverò una compagnia, una donna che condividerà il mio viaggio su questa terra, e quando passeranno le stagioni, e saranno tanti i ricordi, sarà ancora tanta la fantasia, l'amore per noi stessi e per gli altri? Riusciremo a stupirci ancora, sorprenderci, emozionarci al contatto delle nostre mani? Avremo ancora tanta curiosità, voglia di conoscerci e di riscoprirci, e ritrovarci ogni volta al solito posto? Faremo delle pazzie? Litigheremo, per poi fare la pace? C’incontreremo nel letto, con gli sguardi, come la prima volta che c’incontrammo per strada? Spero di sì, ma non sarà facile. Credo sia soprattutto una questione di carattere, più che dell’età, da parte mia, magari tra alti e bassi, ma credo che riuscirò a vivere ogni età di coppia, se e quando accadrà, come un dono, con stupore.
Questo fiume silenzioso/ che mi porta più lontano, / non sarà percorso invano/ se tu partirai con me./
Se la notte si avvicina,/ io ti voglio avere sveglia; / sulla luce che ti abbaglia/ io ci metterò un foulard./ Ci sarò, quando vorrai chiamarmi/ io verrò e per addormentare te/ io ti potrò cantare quello che vorrai sentire./ Ci sarò, prima del temporale/ io verrò. Per ripararti sulla via/ io ti potrò coprire ed aspettare il sole che verrà; /non avremo freddo più.
(E. Ruggeri, Prima del temporale)

mercoledì 18 luglio 2007

Coccinelle in Via Malta

E’ un sabato mattina caldo, le temperature toccano i quaranta gradi, la gente in strada cammina velocemente, qualcuno entra dentro un bar per bere qualcosa e rinfrescarsi, l’afa è altissima, molte persone sono in giro per terminare le commissioni più importanti e tornare velocemente a piazzarsi davanti al climatizzatore di casa. Nella frequentatissima Via Malta, a mezzogiorno trova parcheggio un furgone, in pochi secondi i vetri si riempiono di giornali. Qualcuno pensa si tratti di campagna elettorale, i soliti politici sempre a cercar voti, altri se ne fregano. Si vedono delle ombre, dentro il furgone, muoversi in maniera sospetta. Gli ammortizzatori della povera vettura, cigolano. Nella casa vicino, una donna si accorge di questi strani rumori e si volta verso il suo povero marito, gettato sul divano, davanti ad un ventilatore.

“Caro, cosa sarà mai, tutto questo rumore?”- Gli chiede lei. Entrambi si affacciano. Lui, rintronato dal gran caldo, esclama, “Staranno girando il nuovo spot della Pegueot, e dentro ci saranno sicuramente le famose coccinelle, non ti preoccupare!”. “Quello è un vecchio furgone e non la 207”, risponde la donna, infastidita, “E tutta al più, lì dentro ci saranno due porci, e ora chiamo i carabinieri”.

Quando arrivano i carabinieri trovano un focoso signore di 71 anni, con i pantaloni calati fino ai piedi, ed una donna di 50, visibilmente imbarazzata.
Il terribile anzianotto abita dalle mie parti, nel giornale compaiono solo le sue iniziali, ma, per le Tom Ponzi di zona, basta e avanza per scoprire la vera identità, infatti, dopo qualche oretta tutti sanno di chi si tratta. La scoperta peggiore, il vero trauma, arriva il giorno dopo, purtroppo, non si tratta di una ricetta miracolosa della casalinga che infiamma il suo compagno, come i cioccolatini di Giuliette Binoche, in Chocolat, ma del ben più misero, e meno romantico, Viagra.
Mettiamoci l’anima in pace, ahimé, l’amore è chimica, come diceva il cinico Richard Fish, nel telefilm, Ally Mcbeal.

venerdì 13 luglio 2007

Papillon, fuga dallo studio, parte seconda, il goal

L’innamoramento mi portò a scrivere poesie, copiate spudoratamente da veri artisti. Mi ritrovai a sfogliare i testi scolastici alla ricerca di bei versi da cantare alla mia amata. “Povero sciocco”, me lo dico con molta tenerezza, ma allora lo ero, un cucciolo d’uomo ingenuo. La mia relazione finì, ma, continuai ad aprire quei libri che prima mi erano tanto antipatici, e senza accorgermene incominciai a prendere confidenza con la lettura.
Un giorno entrai in edicola, mi conquisto la copertina di un libro, era una raccolta di racconti di Hermann Hesse, lo acquistai e lessi in pochissimo tempo, gia pronto a prenderne un altro, sempre dello stesso autore, ma poi, invece, venne Steinbeck, Faulkner, Conrad, De Foe, Greene, Mann, poi a seguire, tanti, ma, tanti, altri autori, libri, quotidiani, riviste, ormai non mi fermavo più, era una droga, ma senza controindicazioni, leggevo e non avevo voglia di smettere.
Cresceva dentro di me, non la passione per i libri, ma il desiderio d’imparare, brama, sete che chiedeva ogni volta, “Ancora!”.
I miei amici mi fecero notare che potevo tentare di riprendere gli studi, avevo una buona cultura, c’erano tanti ragazzi diplomati, senza un briciolo di conoscenze, ed allora perché non provarci anch’io, si, ma un conto era leggere un libro che mi piaceva, un altro farlo con uno imposto da altri, ad ogni modo, decisi di provarci.
Preparai il biennio da autodidatta, agli esami andai talmente bene che la professoressa di lettere mi prese in disparte per convincermi ad iscrivermi in diurno per frequentare le sue lezioni. Era un bel complimento, ma avevo paura di non riuscire ad inserirmi, per non parlare delle tante lacune ereditate dagli anni disastrosi delle elementari e medie, ed alla fine, m’iscrissi.
A settembre, alla veneranda età di 25 anni, entrai nella classe terza di un istituto industriale ad indirizzo informatica, io, abituato ad essere autonomo, indipendente, circondato da persone che stimavo, mi ritrovai in una classe piena di ragazzi 15enni, schiamazzanti, dalle voci assurde, nuovamente guardai le finestre, questa volta ero al pianterreno, ma c’erano le grate, volevo scappare dalla porta, prima dell’arrivo del professore, ma rimasi.
Vacillai tantissime volte, quante volte ho pensato di mollare, ma continuavo lo stesso, e più trovavo difficoltà ancor meglio m’impegnavo, certo ero facilitato dalle letture che davano ai miei passi una marcia in più, ma senza tutta quella volontà di farcela non ci sarei mai riuscito.
Gli anni passarono, terza, quarta, fino all’ultimo anno. Per l'esame di maturità, come materie, scelsi Italiano, e Matematica, questa ultima per dare una mano ai miei compagni, non certo perché ero tanto bravo.
Gli scritti andarono benino, agli orali risultai l’ultimo a dover essere interrogato, e potei seguire tutte le interrogazioni degli altri miei compagni. Andarono malissimo, le cose che sentivo erano assurde, davanti ad una commissione esterna sempre più incredula e scocciata, tutti i trucchi per superare indenni gli anni, ed arrivare all’esame finale, crollarono miseramente, uno s’inventò la teoria della cozza, rigorosamente in dialetto, al posto del concetto dell’ostrica, per spiegare i Malavoglia di Verga, e quello non era il peggio che si poté sentire.
Ero solo, ad aspettare, perchè decisi di non seguire l’interrogazione di quello che mi precedeva e quando questo ultimo uscì, gli chiesi come mai stavano ridendo tanto lì dentro, e lui mi rispose placidamente, “Per le cazzate che stavo dicendo”, ed io pensai, “andiamo bene!”, ed ora era il mio turno.
Mi accorsi subito che qualcosa non andava, gli esterni mi guardavano come l’ultima fatica, da sbrigare velocemente, per dimenticare in fretta, una classe d’asini, la mia professoressa commissario interno, sembrava così piccola, stretta com’era nelle sue spalle, doveva esserci stata qualche discussione.
Per primo toccava all’italiano, mi fecero un cenno stanco e cominciai a parlare di un mio argomento a scelta.
Per anni mi ero rimproverato d’essere troppo dispersivo nelle letture, che preferivo farmi nascere nuove idee, invece di memorizzare quel che leggevo, non sapevo legarmi ad un solo argomento, invece, quella scimmia, che mi portavo, e porto ancora oggi, dentro, e che salta da pensiero in pensiero, come fosse su una liana, questa volta mi servì.
Iniziai a parlare, esporre. Si fecero poche domande, sembrava più un dialogo tra due appassionati di letteratura, gli altri insegnanti cominciarono ad interessarsi e si strinsero intorno a noi, aggiungendo i loro pareri, mentre al commissario esterno d’italiano, brillavano gli occhi, quasi le spiaceva smettere. Mi fecero tutti i complimenti meno il professore di matematica, che doveva interrogarmi dopo, lui mi disse, brutalmente, “Un tecnico deve sapere di tecnica”, tentai di dire qualcosa, ma non mi venne in mente nient'altro che, “Ho studiato”. Mi accorsi che in dieci minuti mi giocavo tre anni della mia vita, sacrifici e rospi ingoiati e mandati giù.
Ero in difficoltà, per la tensione, ma lui domandava, senza aspettare, chiedeva, incalzava sui miei tentennamenti. Era così diverso, il suo modo di interrogare, rispetto alla mia insegnante. Sentivo la stanchezza della notte in bianco, la paura di sbagliare, e perdere tutto. Mi facevo coraggio ripetendomi, “Hai studiato, hai studiato”. Mi fece nero, ma riuscì a rispondere alle sue domande anche se a fatica. Salutai e andai via.
Arrivò il giorno di andare a controllare i risultati, avevo paura, mi sembrava che potessi non avercela fatta, quella dannata ultima interrogazione, se solo fossi riuscito a rimanere lucido in quel momento.

Ecco i risultati, il mio nome. Scorro il dito, ed ecco la votazione. E' fatta, 48/60. Ho ottenuto il diploma, e col voto più alto della classe, senza essere un campione. Sono tornato a casa, ed ho dato la notizia a mia madre, poi a mio padre, ero contento, poi mi avvio a piedi verso casa di mio nonno, ricordando tutti i momenti, le tappe, fondamentali di quest’avventura, le sofferenze, le lotte contro la voglia di rinunciare, le paure. I miei passi, si facevano più lunghi, poi veloci, ed infine tutto si trasformò in una corsa a braccia aperte, e correvo come Tardelli al Bernabeu, dopo il gol nella finale contro la Germania, Spagna 1982. Il mio goal era questo. Correvo e godevo di gioia e di un pianto liberatorio, un’emozione troppo grande, per rimanere zitta, zitta, dentro di me.
Questa è la mia storia scolastica e di come arrivai al diploma, ho anche provato ad iscrivermi all’università ma non potevo più permettermi il lusso di non lavorare, così lasciai stare, ma questa è un'altra storia.

giovedì 12 luglio 2007

Papillon, fuga dallo studio, parte prima

Leggevo il post di Lory, parlava di quanta fatica ha fatto il figlio per diplomarsi giusto, giusto, afferrandosi con le unghie a quel pezzo di carta, e pensavo, “E' inutile, non c'è verso per far capire ad un ragazzo quanto sia importante avere un minimo di cultura”, poi mi sono ricordato di quanto ero refrattario allo studio a quell’età, altro che Jacopo, lui è stato un grande in confronto a me che ho dovuto aspettare di avere 28 anni per diplomarmi.
“Tranquilla Lory, mai disperare, il ragazzo si farà.”

Ecco la mia storia scolastica, divisa in due parti, per non appesantire il blog, vi racconto di come ho fatto parte, per lungo tempo, del club degli asini per scelta.

Il primo giorno di scuola fu traumatico, tutti i miei compagni piangevano perché la madre se n’era andata, io guardavo la finestra del secondo piano e rigirandomi a guardare la porta chiusa, capivo che ero in trappola, e quello mi dava veramente fastidio. Ero, entrato in quella scuola, sicuro che sarei saltato fuori alla prima distrazione della maestra, così come non mi avevano fermato le sbarre delle scuole materne, troppo basse e larghe, quelle si, che le saltavo, ma dal pianterreno, ed una volta in strada, tornavo a casa, lì invece, ero troppo in alto, per potermi buttare giù.
Anche se obbligato a rimanere dentro le scuole elementari, misi, nello studio, lo stesso entusiasmo del gatto, che si appresta a subire una bella doccia calda, sotto il rubinetto. Si, è capitato di ottenere dei bei voti, tutte quelle volte che un mal di testa, un raffreddore, mi faceva dimenticare dell’aria aperta, della bici, delle corse nei campi.
Tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie, stava nascendo, dentro di me, confuso e acerbo, un nuovo interesse, che mi allontanava dai libri, quello per il grembiule bianco, improvvisamente il viso, i capelli, la voce delle mie compagne, non erano più gli stessi dell’anno precedente, ma, erano diventati veramente attraenti, ed anche se ci avrei scambiato piacevolmente un bel bacio, finivo sempre per tirar loro i capelli per scherzo, ( mai forte, per la verità ), non sapendo come cavarmela meglio dall’impaccio in cui mi ficcavo, quando cercavo di avvicinarmi per accarezzarle.
Alle medie, si era ammorbidito lo spirito avventuroso, ma non era sparita la scarsa voglia di aprire un libro, preferivo impegnarmi nel tennis, o nel calcio, e già allora avevo il piccolo sospetto che sarei finito come lucignolo o pinocchio, svegliandomi una mattina con due lunghe orecchie d’asino.
Alle superiori, scoprendo che anche le signorine erano attratte dal mio aspetto, cercavo le loro attenzioni ad ogni momento, entusiasta, perdendo tantissimo tempo appresso alle loro gonne, ed anche questo fu un altro duro colpo per lo studio.
Poi a sedici anni, lasciai gli studi, non per mia decisione, ma per un brutto incidente con la mia moto. Continuavo ad uscire e rientrare dall'ospedale, ambulatorio, poi, 8 mesi di gesso e tanti di fisioterapia, ho impiegato due anni per recuperarmi completamente, restando lontano dallo studio.
Provai a riscrivermi a scuola, sembravo ben intenzionato, ma, dietro l'angolo mi aspettava lei, la prima, l'unica e ultima, fino ad ora, donna a cui abbia detto, “Ti amo”, quante volte ho preso la direzione dell’istituto per poi andare ad aspettarla all’uscita del suo, quanto siamo sciocchi, noi uomini, quando siamo tanto innamorati da non accorgerci nemmeno se ci piove in testa. Abbandonai gli studi per mettermi a lavorare. Gli studi non finirono ma la relazione con lei si.